Si tratta di apparecchi, in alcuni casi piccoli come fiammiferi, che assistono persone potenzialmente a rischio di eventi cardiaci avversi: ne ho parlato sul numero di febbraio di BenEssere a margine dell’intervista a una paziente che, per anni, ha sperimentato svenimenti inspiegabili. Solo dopo l’installazione di questo dispositivo è stato possibile comprendere a fondo le anomalie del suo cuore e arrivare alla decisione di impiantare un pacemaker con lo scopo di prevenire arresti cardiaci. «La tecnologia è relativamente recente», mi ha spiegato Renato Pietro Ricci, presidente dell’Associazione italiana di aritmologia e cardiostimolazione, «e consente una registrazione in continuo dell’attività cardiaca». Collocati sotto pelle, quelli più moderni possono essere inseriti con una semplice iniezione. Da quel momento sono in grado di segnalare qualsiasi anomalia del ritmo cardiaco.
Le differenze rispetto all’holter
«Il vantaggio rispetto al tradizionale holter, che registra l’attività del cuore per 24 o 48 ore, è temporale: possono funzionare infatti fino a tre anni», aggiunge Ricci. In questo modo eventi sporadici, che potrebbero non essere colti dall’holter, con questa tecnologia sono invece osservabili. Inoltre i monitor cardiaci consentono al paziente di segnalare, tramite una app per smartphone, sintomi che in questo modo possono essere correlati a ciò che capita nel suo cuore negli attimi in cui li avverte. «I medici hanno accesso remoto al dispositivo, così da poter avvertire il paziente qualora il cuore mostri un’attività anomala». Tutto ciò porta a diagnosi chiare che, come nel caso della paziente, possono richiedere appunto l’uso del pacemaker: «È impiegato ormai da sessant’anni in caso di bradicardie, cioè rallentamenti patologici del ritmo, o di anomalie della conduzione elettrica che mettano a rischio di aritmie gravi o arresti cardiaci», conclude il medico.