Patologia malformativa congenita rara (in Italia sono noti solo una cinquantina di pazienti) caratterizzata da anomalie di mani e piedi, che assumono la forma di una chela di granchio, del palato, degli occhi e di molti altri tessuti, la sindrome Eec è legata a mutazioni del gene p63, deputato alla produzione di una proteina necessaria allo sviluppo dell’ectoderma, struttura embrionale da cui si sviluppano il tessuto nervoso, l’epidermide, la cornea, i capelli. Le manifestazioni sono quindi diverse tra loro e da soggetto a soggetto. «Negli ultimi anni abbiamo scoperto che la sindrome Eec può portare alla cecità», mi ha spiegato Enzo Di Iorio, genetista all’Università di Padova. «Con il progredire della patologia, la cornea si lesiona e la superficie oculare viene ricoperta dal tessuto congiuntivale che opacizza l’occhio, causando la perdita della vista». Sul numero di gennaio di BenEssere ho intervistato Giulia Volpato (foto), ventisettenne padovana affetta da questa condizione e oggi presidente dell’associazione p63 Sindrome Eec International, nata per stare a fianco delle persone colpite dalla mutazione genetica. Proprio su Giulia, insieme al suo gruppo di ricerca, Di Iorio sta sperimentando un trattamento innovativo: un collirio molecolare capace di rallentare la degenerazione corneale.
L’impegno associativo
L’associazione nasce per volere della mamma di Giulia, Cristina Bolzonella, che a soli trent’anni si ritrovò tra le braccia una bimba affetta da questa condizione di cui si sapeva (e si sa) poco o nulla, con tante domande e poche risposte. «Potevo solo o rassegnarmi o darmi da fare», mi ha detto. Scelse la seconda: nel 2007 diede vita a un sito internet di riferimento per pazienti e famiglie e, due anni dopo, all’associazione stessa. «Col tempo abbiamo creato una rete di centri, medici e ricercatori». L’obiettivo è non far sentire sole le persone affette da una condizione difficile da diagnosticare per mancanza di conoscenze. «Occorre che i genitori non siano lasciati soli nell’individuare il percorso diagnostico e chirurgico più utile», dice. L’importante però è far conoscere a ciascun bimbo la sua condizione: «Questi ragazzi vanno valorizzati, senza volerli cambiare a tutti i costi». Ed è ciò che Giulia e Cristina ripetono quando incontrano genitori e ragazzi: l’imperativo è quello di abbattere lo stigma.