Dieci milioni di persone negli Stati Uniti soffrono di emorroidi con un picco tra i 45 e i 65 anni. I dati europei non sono molto diversi: il disturbo, particolarmente diffuso nei Paesi industrializzati, è estremamente frequente anche se ancora poco compreso dai pazienti. Attorno a questa condizione circolano ancora molti falsi miti, sul versante diagnostico e terapeutico. Ma partiamo dalle basi: cosa sono? Antonio Longo, presidente onorario della Società italiana di coloproctologia e ideatore dell’omonima tecnica chirurgica per la terapia di questo disturbo, ci spiega: «Si tratta di tre cuscinetti spugnosi ipervascolarizzati e presenti all’interno del canale anale. Questi, a seconda delle necessità fisiologiche, si gonfiano e si incastrano tra loro chiudendo ermeticamente l’ano e migliorano così la continenza. Quindi tutti abbiamo le emorroidi e queste svolgono un’importante funzione fisiologica». Se le emorroidi restano all’interno del canale anale non danno alcun problema: i disturbi cominciano quando fuoriescono causando un prolasso emorroidario.
Le crisi emorroidarie: il ruolo dello stress
Per lungo tempo si è ritenuto che le emorroidi fossero né più né meno che vene varicose a livello anale. «Da alcuni decenni si è dimostrato che non è così», spiega Longo. «Oltre vent’anni fa ho dimostrato che il prolasso delle emorroidi è conseguenza di un prolasso interno del retto che causa stitichezza e spinge le emorroidi verso l’esterno», aggiunge il proctologo. Così, durante l’evacuazione il retto tende a fuoriuscire e spinge le emorroidi all’esterno. Ma è davvero sempre necessario l’intervento chirurgico? I pareri sono ancora abbastanza discordanti, anche a riguardo dell’efficacia delle varie tecniche. «La mia opinione», aggiunge Longo, «è che i farmaci possono essere utili solo nelle crisi emorroidarie acute. Localmente possono essere impiegate, per brevi periodi, creme che contengono sostanze anestetiche per alleviare il dolore. Sono però più efficaci gli antidolorifici orali e i cortisonici. Spesso utili gli ansiolitici sono utili: aiutano a fare rilasciare gli sfinteri e a fare rientrare le emorroidi». Tuttavia nessuna cura medica può risolvere un vero e proprio prolasso emorroidario: in quel caso serve solo la chirurgia.
Le tecniche tradizionali…
Perché allora molti pazienti tardano a farsi operare? Probabilmente perché gli interventi chirurgici all’ano godono della triste fama di essere dolorosissimi. Oggi, fortunatamente, le cose sono cambiate. «Le indicazioni al trattamento chirurgico sono andate aumentando negli ultimi 10-15 anni con l’avvento di tecniche meno invasive e quindi meglio tollerate e accettate dal paziente», aggiunge Marco Floriani, chirurgo vascolare. «Così si presentano al chirurgo anche pazienti con sintomatologia relativamente modesta ma causa di ripetuti fastidi mal controllati dalla terapia medica, dietetica e comportamentale». L’intervento tradizionale di emorroidectomia, la cosiddetta tecnica Milligan-Morgan, è in gran parte superato: «Non curando il prolasso interno del retto, non cura l’eventuale stitichezza associata e vi è un’alta possibilità di recidive», spiega Longo.
…e la tecnica Longo
Al contrario l’intervento messo a punto da Longo, e supportato da diversi studi internazionali, consente di eliminare il prolasso interno del retto attraverso l’orifizio anale usando uno specifico strumento, detto Pph. A seconda dell’entità del prolasso si può adoperare una sola Pph (mucosectomia con stapler) oppure due (intervento Starr). A oggi sono stati eseguiti oltre 8 milioni di interventi in tutto il mondo, con il metodo Longo. «L’intervento è praticamente indolore perché la sutura resta all’interno del retto dove non ci sono fibre nervose», precisa il proctologo. Inoltre le emorroidi vengono riposizionate nel canale anale e quindi non viene compromessa la continenza anale. «L’unica anestesia richiesta è quella epidurale e non servono medicazioni. La ripresa dell’attività del paziente, dopo una notte di ricovero, è in 3-4 giorni lavorativi e non servono medicazioni». Per queste ragioni la tecnica è la più raccomandata dal National Institute Clinical Excellence, organismo inglese che confronta i vantaggi delle varie tecniche.
L’articolo completo su BenEssere, dicembre 2016