Secondo la National Hemophilia Foundation al mondo vivono circa 400mila persone affette da emofilia, mentre secondo il Registro nazionale delle coagulopatie congenite, istituito presso l’Istituto superiore di sanità, sono quasi 5mila gli emofilici italiani di cui oltre 2mila affetti da una forma grave. Più nel dettaglio la prevalenza è di circa 6,4 su 100mila abitanti per l’emofilia A e 1,4 su 100mila per la B. La prima è causata da un deficit del fattore VIII della coagulazione mentre la seconda dalla carenza del fattore IX. «In entrambi i casi il difetto genetico è sempre sul cromosoma X», mi ha spiegato Alessandra Borchiellini, ematologa presso l’azienda ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino, «e sono entrambe quindi a trasmissione diaginica, con la madre che nel 70 per cento dei casi è portatrice». Si manifesta quasi esclusivamente nei maschi, mentre le donne possono essere portatrici sane.

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L’evoluzione della terapia

«Dagli anni Settanta, quando i pazienti venivano trattati per la prima volta con concentrati dl fattore carente di derivazione plasmatica, i progressi sono stati enormi», prosegue Borchiellini. Tale terapia sostitutiva si basava inizialmente sull’impiego di plasma e poi di plasmaderivati. «La contaminazione virale dei concentrati plasmatici che ha provocato le infezioni da HCV e HIV nella popolazione emofilica ha rappresentato sicuramente il più grave effetto correlato all’uso di questi prodotti», aggiunge Borchiellini. Tuttavia l’avvento di concentrati plasmatici sempre più sicuri grazie a processi di controllo dei donatori e a sempre più efficaci tecniche di inattivazione virale ha superato questi problemi così come è accaduto con i prodotti ricombinanti privi di rischio infettivo.

Il rischio immunogenico

Esiste invece ancora una complicanza alla terapia sostitutiva: la comparsa di anticorpi contro i fattori della coagulazione che neutralizzano l’effetto della terapia stessa. «La ricerca», mi ha detto Flora Peyvandi, direttrice del Centro Hub di Regione Lombardia per l’emofilia e la trombosi presso il Policlinico di Milano, «va però oggi nella direzione di sviluppare nuovi prodotti con minore rischio di immunogenicità».

L’impiego delle terapie sostitutive

A oggi la terapia sostitutiva resta un punto di riferimento per entrambe le patologie. Può essere somministrata al bisogno in caso di emorragia oppure come profilassi, con l’obiettivo di giungere a una concentrazione del fattore mancante non inferiore al 5 per cento. La profilassi prevede la somministrazione del concentrato due o tre volte la settimana (a seconda della forma di emofilia). Attualmente esistono farmaci di sintesi a emivita prolungata che consentono un numero inferiore di somministrazioni a fronte però di un’efficacia immutata.

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La terapia genica: come agisce…

La vera innovazione è costituita però dall’avvento della terapia genica sia per l’emofilia A che B. «Questa si propone di far giungere, tramite un vettore virale, il gene del fattore carente al fegato così che in questa sede si avvii la sintesi ex novo del fattore VIII o IX», spiega Peyvandi. «Tale produzione avviene in modo transitorio in quanto il gene corretto non è integrato nel genoma: si parla infatti di integrazione parziale».

…e come è somministrata

Allo stato attuale si tratta di trattamenti che prevedono una singola infusione capace di portare il raggiungimento di concentrazioni dei due fattori fra il 15 e il 100 per cento. «L’espressione sostenuta del FVIII o FIX rende nella maggior parte dei casi il paziente svincolato dalla somministrazione del concentrato in profilassi e può rendere la somministrazione del fattore carente necessaria solo occasionalmente, a seconda delle concentrazioni plasmatiche raggiunte», conclude Borchiellini.

punto esclamativoRischi e prospettive della terapia genica. A oggi non è possibile conoscere la durata dell’effetto della terapia genica in emofilia A e in emofilia B: «Supponiamo che possa durare per circa 5 o 6 anni, ma serve ancora tempo per giungere a una risposta certa», dice Flora Peyvandi. Di certo i pazienti che si sottopongono al trattamento devono essere monitorati con uno stretto follow up nei mesi successivi all’infusione: «L’effetto collaterale più frequente è l’incremento degli enzimi del fegato che può necessitare di un trattamento medico», aggiunge Alessandra Borchiellini. Va inoltre valutato nel tempo anche il rischio di oncogenicità della terapia.